Dove sei stato mio bell’Alpino
che ti ha cambià colore?
L’è stata l’aria dell’Ortigara
che mi ha cambià colore.
Il corpo degli Alpini è qualcosa che va oltre ogni stretto riferimento militare, di battaglia, di retorica patriottica. Bisognerebbe iniziare da qui. Dai canti alpini, col bicchiere in mano e quella commozione un po’ goffa che si ha dopo aver mangiato e bevuto in abbondanza. Bisognerebbe iniziare ricordando cosa vuol dire essere un alpino ma anche cosa vuol dire non esserlo ma sentirsi alpino, riconoscere l’enorme influenza sia ideale che pratica dei soldati con la penna nera che poi sono uomini con grandi ideali e pazienza se hanno pure bassi istinti a volte, la santità non appartiene alla divisa.
Nelle memoria della Grande Guerra, le geste alpine sono protagoniste assolute e a più di un secolo di distanza continuano a rappresentare lo spirito stesso di un paese che allora fu costretto per la prima volta a sentirsi unito da una tragedia come quella disumana esperienza. Ma gli alpini sono anche quelli che accorrono per primi quando c’è un terremoto, che si muovono per i disastri ambientali, che si organizzano come volontari per le emergenze umanitarie. Insomma, bisognerebbe partire dal simbolo, dall’esempio, dal fatto che molto probabilmente sono la rappresentazione umana dell’Italia più vicina alla virtù. Gli alpini non dicono mai “io”. Dicono “il mio plotone”, “la mia compagnia”, “il mio battaglione”, “il mio capitano”, “il mio colonnello” e basta! Non vogliamo idealizzarli, ma ci sembra di poter affermare che nell’attuale civiltà della materia e delle macchine, questa gente che – senza forse rendersene conto – si sosteneva soprattutto sullo spirito, costituiva una grande eccezione. Perfino quando gli capitava di essere sconfitti, essi in cuor loro (a motivo del dovere compiuto) non si sentivano propriamente tali; d’altra parte sconfiggerli era molto difficile.
Dove sei stato mio bell’Alpino
che ti ha cambià colore?
Sul Monte Nero c’è una tormenta
che mi ha cambià colore.
Però il santino anche no, quindi, una volta chiusa la doverosa e sacrosanta introduzione veniamo a noi, ovvero all’adunata imminente. E se nell’introdurre il senso stesso del corpo e il motivo per cui ha senso (perché questa è la domanda che si pone la gente non alpina) ci sia un’adunata ogni anno, viene naturale essere chiari e netti, se si va a raccontare quello che accadrà qui tra il 10 e il 12 maggio, si diventa molto meno precisi e sicuri. Nel 1991 fu una grande festa e un grande caos. Nel 2024 sarà una grande festa e un grandissimo caos. Ci si attende una marea umana, che si riverserà in città e nei dintorni per festeggiare a modo suo, ovvero mangiando, bevendo e cantando. Le manifestazioni collaterali sono moltissime, tra mostre, concerti, fanfare, celebrazioni, ci mancherebbe altro. Però si fa fatica a far passare l’adunata per un evento culturale. Lo è in quanto cultura popolare, ma intendiamoci: è una festa, una enorme festa. E alle feste succedono le cose tipiche delle feste, ma sentire che “arriveranno mezzo milione di ubriachi” fa sinceramente innervosire non poco. Si celebra la storia, si onora l’onore, e perdonate le esagerazioni, mettetele in conto e sappiate che il 13 maggio, come alla fine delle feste, ci sarà chi rassetterà la città e chi si ricorda il ‘91 sa che a farlo saranno soprattutto gli alpini stessi.
I “veci” non transigono: ci si comporti come si deve! Ahimè, per loro, ci saranno decine di migliaia di curiosi che vedranno Vicenza in quei giorni solo come una sterminata sagra paesana dove combinare chissàche. Ci auguriamo rimanga tutto nei contorni della baldoria sana e di un grado accettabile di goliardia. Vicenza è tutto un tricolore, in generale si sta preparando con grande entusiasmo e ogni giorno in più si fa bella per l’occasione. Nel ‘91 era un’altra città, ma era il mondo tutto ad essere diverso. Chi vi scrive non ha alcun dubbio nel dirvi che era una città migliore e pure un mondo migliore. Sono peggiorati i toni, il livello culturale, la generale concezione di comunità. Se qualcosa andrà storto nei prossimi giorni, almeno non diamo colpa agli alpini ma al distorto e degradato tempo che stiamo vivendo, complici o meno, tutti quanti.
Dove sei stato mio bell’Alpino
che ti ha cambià colore?
Là sul Pasubio c’è un barilotto
che mi ha cambià colore.
E’ stato il fumo della mitraglia
che mi ha cambià colore.
Ma i tuoi colori ritorneranno
questa sera a far l’amore.