Quando si parla di classi dirigenti, tutti pensano alla politica e ai partiti. Troppo comodo, troppo facile. Le classi dirigenti – capaci di condizionare e influenzare le decisioni e di avere potere – attraversano diversi ambiti, dove si annida l’élite di una società: magistratura, chiesa, giornalismo, impresa… Tra i diversi ambiti delle classi dirigenti si stabiliscono alleanze, complicità, mutui affari. In Gran Bretagna (e negli Stati Uniti) si preferisce parlare di establishment, ma più o meno si tratta della stessa cosa.
Gramsci ricordava che in certe epoche della nostra storia le classi dirigenti – quando non riescono a esercitare l’egemonia sulla società – diventano sovversive, ricorrendo al ribaltamento della democrazia e delle regole del gioco per rimanere in sella. Accadde in Italia con il fascismo, ma sta avvenendo in dosi omeopatiche e con forme forse meno drammatiche anche oggi. Quella che lo scrittore jugoslavo Predrag Matvejevic, riferendosi ai paesi nati dalla disgregazione della Jugoslavia, chiamava “democratura” – crasi tra democrazia e dittatura – si potrebbe applicare a diversi altri paesi nel mondo attuale. Si potrebbe parlare ad esempio di Trump, di Orban e di altri.
Le pulsioni autoritarie si avvertono ovunque, anche in Italia. Per non parlare di ciò che succede nel mondo dell’informazione. Quando perdono la calma, le pulsioni autoritarie degli uomini e delle donne al governo tornano a galla come riflessi pavloviani.
Tra le classi dirigenti ci sono anche gli imprenditori che negli anni ’20 del secolo scorso, in gran parte, non ebbero dubbi: si schierarono con il sovversivismo fascista, anzi lo finanziarono. Nel secondo dopoguerra, abbiamo avuto imprenditori illuminati o animati dalla responsabilità sociale e pubblica: Olivetti, Falck, Pirelli, per citarne alcuni.
Oggi abbiamo in gran parte figuranti – non tutti, ci sono anche eccezioni – disposti a vendersi per il piatto di lenticchie dello sconto fiscale. La cosa buffa è che molti imprenditori non si sentono “classe dirigente”, dimenticandosi che abbiamo avuto un premier imprenditore – Berlusconi – per 9 anni e una trentina di ministri provenienti dall’establishment imprenditoriale dagli anni ’80 ad oggi.
E quando ti ritrovi a tavolo con esponenti del cosiddetto establishment la prima sottolineatura è il distinguo dalla politica. L’Oscar dell’ipocrisia va al Confindustriale, professionista della carriera per cooptazione, che ti spiega che lui, diversamente dai politici – che schifa ma frequenta – “ragiona da imprenditore”, poi magari scopri che in azienda non lo vedono mai perchè altrimenti quell’azienda l’avrebbero chiusa da un pezzo.
Anche a Vicenza sarebbe arrivato il momento di una presa di coscienza, di un esame critico di come l’establishment negli ultimi 30 anni ci abbia portato al collasso sociale e ambientale, a una crisi strutturale del paradigma insostenibile dell’economia dominante.
I principali nodi su cui si è avvitata la crisi di sistema passa attraverso scelte sbagliate o ancor peggio, attraverso non scelte che ci hanno fatti arrivare ad essere sempre meno significativi nel quadro regionale e nazionale. La vicenda dell’Alta Velocità e delle conseguenze di un attraversamento scellerato della città ha tanti padri, ma è il risultato di un’establishment inadeguato che ha anteposto rendite di posizione o micro vantaggi di parte rispetto al bene del territorio. La sicurezza non è un tema che riguarda solo la politica, ma la classe dirigente a tutti i livelli che manca di coraggio e, soprattutto di visione sistemica. Siamo diventati marginali sul sistema fieristico e su quello bancario, ma non è successo per caso, ma perché l’establishment lo ha permesso.
Lo stesso che ciclicamente incolpa la politica dal loggione anziché guardarsi allo specchio e chiedersi cosa poteva fare per evitarlo.